L'intervista a Paola Navone

La decisione nel 1973 di fare una tesi sul movimento radicale molto dice di Paola Navone, torinese di nascita, cittadina del mondo, e non per iperbole, dato che ha vissuto a Hong Kong, nelle Filippine, in Indonesia, in Malesia, in Thailandia, che abita a Milano e a Parigi, che frequenta Trieste, che è di casa in India, in Cina, in Grecia, che viaggia senza sosta e senza fatica per guardare e scoprire. 

L’aggettivo radical testimonia la sua curiosità, quella che da sempre l’accompagna, per quanto di nuovo germoglia nel mondo del progetto, per le ricerche che escono dal seminato per nutrire altri pensieri sul disegno della casa e della città. 

E forse indica, sin da dagli esordi, una sua attitudine che, guardando a ritroso la mole dei suoi lavori, si coglie nel suo modo di affrontare i progetti d’architettura, di design, di interior ed allestimenti: sempre da un altro punto di vista. Per parlare dei suoi progetti ci vorrebbe un libro di molte pagine. Conviene citare la sua collaborazione, ormai storica con Abet che da conto della sua abilità nel trattare la pelle delle cose e della sua attenzione al design primario (che forse ha imparato dai radicali fiorentini). 

La creazione nel 1988 della Collezione Mondo per Cappellini, la prima che contaminava con fantasia, evitando smaccati etnicismi, culture diverse, che mescolava l’Africa al Tirolo (Villaggio Afro-tirolese alla Fabbrica del Vapore ( Milano 1990); Le mostre “ I nuovi artigiani dell’Europa” e “I nuovi artigiani italiani”, realizzate per Pitti Casa a Firenze.

C.M.

Hai viaggiato molto, hai collaborato con artigiani di vari paesi, in che misura questo “tuo nomadismo” culturale ha influenzato i tuoi progetti?

P.N.

Ho allenato l’occhio a guardare le cose quotidiane, gli oggetti umili, le suppellettili domestiche. 

Ho imparato, collaborando con gli artigiani di vari paesi, a rispettare la manualità spontanea e le tradizioni. Ho compreso la bellezza e la pertinenza degli oggetti quotidiani densi di storia, capaci di essere senza tempo. Li ho studiati e collezionati.

C.M.

Posso definirti un’antropologa delle cose quotidiane?

P.N.

In qualche misura si. Più che i comportamenti delle persone, mi interessano le cose che utilizzano, le regole non scritte che derivano dagli usi. Amo le forme, le consistenze, i materiali, le textures e le gamme cromatiche dei manufatti delle varie culture. Osservarli e studiarli mi insegna i segreti della funzionalità e della pertinenza. Mi aiuta a conoscere attitudini e comportamenti di altre culture. Gli oggetti sono per me veicoli di gusti, di idee e di relazioni.

C.M.

E’ azzardato dire che la tua scuola, più che quella dei maestri del design, anche se hai frequentato i protagonisti del movimento radicale, sono state le cose quotidiane del mondo?

P.N.

In parte è vero. Le cose di tutti i giorni sono il mio alfabeto. Mi piace utilizzarle fuori contesto per dare ai “non luoghi” il senso conciliante della domesticità.

C.M.

Viaggi molto, ma ami mettere radici. Hai casa a Milano, a Parigi, in Grecia, e ne hai avuta anche una a Hong Kong.

P.N.

Mi piace arredare, soprattutto case che possano essere per la vita, dove collocare le cose che ho raccolto, che ho trasformato e disegnato, gli archetipi, ma anche gli oggetti effimeri.

C.M.

Tra i tuoi tanti progetti ce ne sono vari dedicati alla tavola.

P.N.

Mi piace la convivialità, condividere con gli amici i miei spazi, mettere le persone a tavola a casa mia, ma anche in case altrui. Ho spesso cucinato anche a casa di amici. Ho disegnato piatti per varie aziende, tra le quali Driade e persino per il catalogo della carta Fidaty di Esselunga, realizzati da Fasano ceramiche di Grottaglie.

C.M.

E’ azzardato dire che i piatti e le suppellettili per la tavola rappresentano una tua importante cifra espressiva ?

P.N.

Forse no. Mi viene in mente la “Taste Lounge”, creata nel 2009 nel padiglione Visconti di Via Tortona, durante il Salone del Mobile di Milano, grazie alla collaborazione tra Pitti Immagine e Richard Ginori, dedicata alla tavola e alla convivialità, dove la scenografia fu realizzata con le collezioni della Richard Ginori, utilizzate quasi come tessere di un mosaico.